Un nuovo Wadi Rum

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Sembra di sentire ancora lo spirito guerresco col quale un eccezionale Peter O’Toole, interpretando T.E Lawrence nel colossale Lawrence d’Arabia (1962), inneggiava alla rivolta degli Arabi contro l’Impero Ottomano, guidando col Principe Faysal Bin Hussein quell’impresa epica che ha segnato la fine di uno tra gli imperi più longevi della storia.

Immaginare una futura rappresentazione cinematografica della attuale crisi magrebina ci permette di tracciare alcuni confini di un quadro intricato, ma che non nasconde paradossali assonanze con la storia di quel furente deserto giordano che ospitò le operazioni militari verso Aqaba. Un regista attento che si apprestasse a descrivere in un’opera di ingegno i nostri tempi non si troverebbe solo a fare i conti con l’assenza di alcuni nomi memorabili come Anthony Quinn e Omar Sharif o con la difficoltà di filare una trama godibile su un evento dalla concretezza cogente: prenderebbe coscienza fin da subito che questa volta, davvero, la rivoluzione emana dalle folle, in modo “imprevisto”, senza grandi protagonisti. Le interpretazioni sulla fonte di questo marasma sono centinaia. Lucidamente qualcuno ha visto nei social media uno dei cardini del movimento (o dei movimenti?) che sta smantellando uno ad uno come birilli tutti gli autocrati e i dittatori nordafricani: i “cyber utopisti” come Hillary Clinton, per dirla con Roger Cohen, avrebbero recepito da subito il potere rivoluzionario della rete, profetizzando che gli altri Signori della Terra – la Cina in testa – avrebbero cominciato a troncare ogni collegamento in rete alle parole “Egitto” e “Tunisia” poco conveniente. Ma non è questo più un giudizio procedurale che ontologico?

Le risposte alla crisi magrebina (o meglio… al Grande Risveglio) sono a monte. La Comunità Internazionale aveva tutti gli elementi per assumere quelle decisioni, da travasarsi e giuridificarsi nelle varie raccomandazioni e decisioni di diversa natura previste e regolate nel Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che costituiranno ora il fulcro di un intervento sì necessario, ma che presenta ormai tutte le componenti di un pagamento in mora, con tanto di interessi. Si è preferita l’attesa per sentirsi apporre il titolo di “prudenti” che negli anni appena trascorsi è mancato (il fallimento di Srebrenica ne è solo un esempio). Sfortunatamente, anche questo appellativo non può essere predicato perché questa attesa non è figlia dell’innocenza. Le Nazioni Unite hanno mostrato ancora una volta una visione parziale e monolitica dinnanzi “alla tensione che si accresceva ai poli”, espressione di una “cultura omogenea” che tradisce tutta l’indole più gretta della matrice europea, tipica delle alte diplomazie da salotto lontane dalla realtà e figlia anch’essa della globalizzazione colonialista iniziata secoli fa. Del resto, come Franco Cardini ha messo in luce, lo stesso Napoleone già nel 1800, approdato in Egitto, comprese nitidamente quale potenziale si stava accumulando tra le polveri del deserto.

Abbiamo (l’Europa e l’Occidente) rinchiuso la “Nazione Araba”, il Magreb, ma anche grossa parte dell’Africa centrale e meridionale (sebbene diverse siano le conseguenze: si pensi allo Zimbawe di Mugabe) nel cassetto della storia, credendo che le pseudo monarchie, le dittature formali, le autocrazie (ognuna secondo le sue species) avrebbero conservato la stabilità politica di una terra originariamente belligerante, sarebbero state veicolo di economia e progresso, ma soprattutto avrebbero fatto da argine al Fondamentalismo Islamico. La nostra azione, frutto di una scelta “politica”, ma soprattutto di uno smaliziato egoismo e cinismo machiavelliani, si è concretata in un’eterogenesi dei fini: continueremo ad osservare le peggiori stragi del Mediterraneo degli ultimi anni (se Qaddafi dovesse riappropriarsi di Tripoli e muovere di lì verso la Cirenaica ribelle, il rischio di vivere una nuova Cambogia diverrebbe reale, essendoci già adesso tutti i requisiti del “dolus specialis” proprio dei crimini contro l’umanità); abbiamo alimentato nuovi sultani e represso indirettamente intere popolazioni che adesso sono ridotte alla fame, quella stessa che le ha indotte ad agire sull’onda del rincaro mondiale delle derrate alimentari; abbiamo trascurato che questi popoli, a contatto con l’Europa da sempre (quella greco-romana in principio), ricercavano una forma alternativa di libertà (o almeno una ricognizione di identità), e proprio per il loro passato non erano i più disposti a farsi oggetto di strumentalizzazioni a sfondo religioso come invece lo sono stati molti dei beneficiari delle “Esportazioni di democrazia targate ONU”. Un ennesimo buco nell’acqua.

Intanto, la seconda economia del mondo, meritoria di aver fidelizzato gran parte del continente africano, attuando la stessa politica della delocalizzazione con la quale quarant’anni fa l’Occidente ha spostato le sue produzioni nei paesi asiatici (facendosi “cicala” e dimenticando come “la formica costruisce la sua tana”), se da un lato provvede all’esodo di ben 33mila cinesi da Bengasi, conserva i rapporti con l’Egitto. Troppo attento conoscitore dell’importanza strategica del Medio Oriente per commettere errori, il governo cinese non si espone oltre il dovuto.

Sarà un Nuovo Wadi Rum, con i suoi traguardi militari ed eroi romantici? O forse un’ennesima bolla internazionale, un contentino giuridico senza corpo (come l’Accordo Faysal Weizman del 3 gennaio 1919, che partito per regolare persino la vicenda della Palestina, in accordo col Movimento Sionista, si è sgretolato pochi mesi dopo)? A questo guarda il mondo intero, ma intanto e soprattutto i vari Re Abdullah II , Abdelaziz Bouteflika, Ali Abdallah Saleh costretti a decidere adesso tra la via dell’esilio (Mubarak, Ben Ali) o quella del sangue (Qaddafi).


Mario De Rosa

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