Mese: luglio
Anno: 2010
Articolo: 5
“Lettere a un giovane poeta”
Criticare la critica
Cari amici del “Centro”, ci siamo lasciati commentando la seconda epistola, più d’un mese fa. Beh è tempo di prender per mano la terza lettera che il giovane Rilke inviò al suo discepolo spirituale, esattamente il 23 aprile 1903, da Viareggio. Ma per una volta vi chiederò uno sforzo più intenso: proviamo a catapultarci in medias res, proprio tra le parole dell’autore praghese, con l’avvertenza che questa epistola, specificamente, presenta come delle anomalie curiose al suo interno e, dopo le indicazioni pratiche – che pure non mancano – relative soprattutto a consigli di lettura diretti a risvegliare l’estro e la fantasia di Kappus, Rilke si muove in un efferato attacco alla Critica letteraria. Attacco che però, se non ci risulta nuovo (ne abbiamo trovato tracce nella prima epistola) è ricco di significati per ognuno di Noi:
[Rilke commenta l’introduzione di un libro fatta da un critico, della quale Franz Kappus ha dato un parere negativo]
“Qui vorrei rivolgervi una preghiera. Leggete il meno possibile opere critiche ed estetiche. Sono prodotti di spiriti faziosi, pietrificati, privi di senso nella loro rigidezza, senza vita, oppure abili giochi di parole; un giorno vi detta legge un’opinione, un altro l’opinione contraria. Le opere d’arte sono di una solitudine infinita; nulla è peggio della critica per accostarvisi.”
È un messaggio forte, che propugna come idea caratterizzante un relativismo metodologico, quasi – sembrerebbe – un convinto scetticismo nei confronti di tutto ciò che la critica scrive e propone.
Ma è possibile ritenere che un pilastro della letteratura abbia tanta fobia nei riguardi della stessa azione del “commento all’opera”? (perché, non si dimentichi, la critica parte sempre da questa esigenza esegetica ed è presente ovunque, dal commento dell’opera letteraria o artistica lato sensu, alla riflessione sul Testo Sacro e a quella, non meno importante, sulla legislazione).
In realtà la valutazione che Rainer Maria Rilke sviluppa sulla critica in sé è di tipo diverso: si presenta come contestazione dell’assetto stesso del fare “critica”, è “critica della critica”, dunque, senza smontare però del tutto quella primigenia esigenza di cui si è detto, ma dando rilievo ad aspetti più essenziali e profondi:
“Solo l’amore può afferrare le opere d’arte, custodirle, esser giusto verso di loro. Date sempre ragione al sentimento vostro contro queste analisi, queste introduzioni, questi resoconti. Se avrete torto voi, lo sviluppo naturale della vostra vita interiore vi condurrà col tempo ad un altro stato di conoscenza.”
Dunque Critica come processo evolutivo, progressivo… ma personale.
I veri critici, quelli che in ultima analisi sapranno dare all’opera i suoi connotati, li riconosceranno,… siamo Noi. Benedetto Croce sembra vivere dentro queste parole, con l’affermazione che ogni costruzione teoretica sull’arte in sé, ogni “metariflessione” sull’arte che non sia arte, nuoce all’arte, la spegne, la mortifica. È una concezione che – a parer mio fortunatamente – è superata, ma che può farci da guida nella vita con semplicità estrema e totale efficacia: tutto ciò che proviamo, tutto ciò che viviamo deve passare per il nostro giudizio, per il nostro tribunale interiore per esser effettivamente approvato. Ma i tempi di “restituzione”, come si dice nel Teatro Educazione, possono essere lunghi. Non bisogna demordere. Il vero artista cresce, ma al tempo di un albero che supera le intemperie con la fiducia nel futuro radioso dell’estate.
“Lasciate ai vostri giudizi il loro tranquillo sviluppo. Non contrariatelo, poiché come ogni progresso, deve venir dal profondo del vostro essere e non può sopportare né sforzi, né fretta. Portare a termine, poi partorire: tutto sta qui. Bisogna che voi lasciate partorire dentro di voi ogni impressione, ogni germe di sentimento, nell’oscuro, nell’inesprimibile, nell’incosciente, in queste regioni chiuse alla comprensione. Aspettate con umiltà e con pazienza l’ora della nascita d’un nuovo chiarore. L’arte esige tanto dai suoi semplici fedeli quanto dai creatori. Il tempo, qui, non è una misura. Un anno non conta: dieci anni non son niente. Esser artisti non vuol dire contare, vuol dire crescere come l’albero che non sollecita la sua linfa, che resiste fiducioso ai grandi venti della primavera, senza temere che l’estate non possa venire. L’estate viene. Ma non viene che per quelli che sanno attendere, tanto tranquilli e aperti come se avessero l’eternità dinnanzi a loro. Lo imparo ogni giorno a prezzo di sofferenze che benedico: la pazienza è tutto.”
Mario De Rosa