Oggetti che si fanno parola, versi che si fanno percezione
Un lungo tramonto con scaglie di nuvola che dall’alto guardano l’orizzonte ci immerge in una sensazione di infinito, di innumerato, di potente. È la parola stessa che ci conferisce quel presupposto: “infinito = non finito = indefinito”. La poesia ha sempre prediletto questa strada, forte com’è dell’energia delle parole. Particolarmente l’arte di costruire il verso si è fatta sovrana in questo senso durante tutto il Novecento: si pensi agli eccessi di D’Annunzio, alle meditazioni di Quasimodo, alla sublimazione stessa della parola in Ungaretti (“M’illumino di immenso”). Eppure c’è un’altra strada, forse meno amata, profondamente discussa, che ha guidato per mano un’altra categoria di poeti delle specie più diverse (si pensi alla triade Pascoli, Gozzano, Montale): I Poeti delle Cose, come li ha definiti Luciano Anceschi.
Ero ad Ischia sulla spiaggia di Cetara, da amici, in quei giorni caldi del luglio 2009. In mano avevo una silloge poetica che una nota editrice siciliana mi aveva spedito pochi mesi prima: un gradito regalo. La raccolta si intitola “Finestre affascinate Ardenti Stanze”: essa raccoglie una serie di poesie e scritti della poetessa e giornalista Simonetta Giungi, morta suicida nel 1985 a soli quarant’anni; testi che ha raccolto il fratello e che sono stati pubblicati nella Collana “I Nuovi Poeti” della Casa Editrice il Gabbiano, a cura di Maria Froncillo Nicosia.
Liriche di una bellezza straordinaria, postmoderne nella struttura e nei temi. Non è casuale che Mario Luzi, che ne curò la prefazione, sottolinea tutta la carica rivoluzionaria di quelle strofe, che accomunano la “pulsione eliminatrice dell’ego” con la “grazia ludica nei movimenti compositivi che seduce proprio per lo struggente contrasto”.
Quelle letture mi hanno immediatamente perforato la testa e hanno aggiunto un di più indispensabile a quell’idea che meditavo da tempo. Così è nata “Linee e confini”: un tentativo di riconciliazione tra il vecchio e il nuovo, veicolato dal “correlativo oggettivo”, lo strumento prediletto dal grande T. S. Eliot, quello stesso che apre la raccolta montaliana “Ossi di seppia” fin dal titolo. L’uso stesso del mezzo tecnico della dinamica oggettuale è stato l’espediente che mi ha fatto esprimere ancora, in modo assai diverso dai tentativi precedenti.
Le tematiche sono profondamente diverse rispetto a quelle trattate dalla poetessa anconetana di cui si è detto prima. Lei ed io siamo elementi opposti di universi distanti, per cui difficile sarebbe trovare un elemento comune. Eppure è proprio l’esplorazione del suo nichilismo talora spietato, di quella cancellazione della personalità così dolorosa e sofferta che, in un ottica schmittiana, ha colorato i miei Confini e costruito le mie Pareti, quasi a confermare quell’antica regola guerresca secondo la quale “nel diverso noi troviamo la nostra identità”.
“Un lungo tramonto con scaglie di nuvola che dall’alto guardano l’orizzonte ci immerge in una sensazione di infinito, di innumerato, di potente.” Tutto ciò è ineludibile. Ma quello stesso tramonto, se analizzato con lo sguardo disilluso, geometrizzato dai sensi e acquisito dalla mente diviene un canale molto più celere verso la trascendenza a cui il poeta, che è uomo sensibile e sensitivo, anela ogni momento.
Mario De Rosa