Commento a le “Lettere a un giovane poeta” R.M.Rilke – 1

Primo Piano 4
 

Mese: Novembre Anno: 2009
Articolo: 1

“Lettere a un giovane poeta”
Termini di una Vocazione… poetica

Quando si parla di “vocazione”, dunque emblematicamente (ce lo conferma l’etimologia stessa della parola, derivante dal verbo latino “vocare”) di una “Chiamata”, si ha sempre il timore di dare una definizione che per la sua valenza onnicomprensiva debba riferirsi alla sfera delle azioni di una persona in toto, dirette a questo “quid” in modo pressoché cogente ed esclusivo, quasi che l’essere assai predisposti verso un mestiere, verso un attività o verso qualcosa d’altro (non dimenticando l’elemento della volontà che ha un peso rilevantissimo in questo contesto)  sia espressione di un Progetto Superiore a noi più o meno incognito che, per tale ragione, meriti la nostra totale dedizione. E così in realtà dovremmo a giusta ragione intendere il vocabolo suddetto se ci soffermassimo appena un attimo a ricordare quei numerosissimi nomi che hanno fatto la storia dei settori, delle branche del sapere, delle discipline da loro esplorate, fossero italiani o stranieri, laici o ecclesiastici (dunque nei termini di una Missione alla quale destinare tutto se stessi).
Oggi però, in una realtà sociale fin troppo “distratta” dalle contingenze e dagli svaghi, occorre un po’ di fantasia per immaginare una “Chiamata veramente importante”, a tal punto che uno Chopin, un Bartolo, un Michelangelo, una Madre Teresa di Calcutta, un Pasteur sono addotti solo come “prove” in un discorso che tratti questa materia specifica, non certo come modelli da seguire fattivamente. Si ammette perciò l’esistenza di tali esempi di vita, ognuno come detto “vocato” a una sua specialissima attività, ma non sembra attuale dar loro la possibilità di essere qualcosa di più che semplici reminiscenze nella nostra vita.
Grandi maestri di Vocazione furono i Santi, i geni della tecnica e dell’arte, i filosofi e i matematici che hanno lasciato il segno, i corridori olimpici persino, non tanto però per l’oggettivo valore della loro opera (che va inteso sì come un grosso merito, frutto anche di un impegno talora maniacale – si pensi ad un Van Gogh o ad uno Schumann), bensì per la tenacia dello sforzo prodotto in sé, per la totale abnegazione in virtù del risultato sperato che ogni volta si sposta più oltre, per il perfezionismo e per il rispetto stesso dell’attività considerata, qualunque sia la sua direzione… In altri termini non tanto per l’effetto quanto per lo scopo e per l’onestà interiore addotta a perseguirlo, valori oggi giorno poco considerati come aventi propria consistenza in una scala gerarchica delle virtù totalmente stravolta, ma che continuano a darci l’idea più evidente della realtà essenziale dell’elemento vocazionale, comune a tutti coloro che sentano questa chiamata per davvero (si potrà perciò essere avvocati di grido ma non avere realmente l’inclinazione alla professione forense, così medici per vocazione o… semplicemente medici).
L’agire tende sempre di più ad avere senso se produce quel piacere, quel vantaggio. Il lavoro ad esempio, commensurato come valore nella nostra stessa Costituzione, tende ad essere percepito come strumento per vivere (il che certamente è lecito), ma non molto quale elemento di realizzazione sostanziale della persona.
Ma il discorso, per comodità sviluppato sull’ambito delle attività lavorative -  produttive, meriterebbe una trattazione a sé stante che lo contemplasse, in modo dialettico, per esteso e definitivamente…
Passando però all’argomento che ci accompagnerà per alcuni mesi e che nell’ambito di questa prolissa introduzione trova la sua ragione d’essere, occorre spendere almeno alcune parole su questa opera assai breve che ci accingiamo a trattare, composta di dieci lettere, molto agevoli nella lettura ma di una profondità che, a parer dello scrivente, appare quasi sconvolgente data la natura atemporale di quanto si dice nell’epistolario (oltre che per la sua “applicazione potenziale” a tutti i settori della vita).
Oggetto di questa rubrica letteraria nuova (con cadenza bimestrale) del giornale, gentilmente offertaci dagli amici del “Centro”, è proprio la raccolta intitolata “Lettere a un giovane poeta”, opera che ha costituito, fin dalla sua pubblicazione, uno spunto di riflessione di amplissimo raggio. La stessa figura di Rainer Maria Rilke, emblematica sotto tutti i punti di vista, meriterebbe quasi un seminario di incontri e di dibattiti tenuti da esperti della materia per riflettere assieme sulla dimensione storico-culturale dei poeti e degli artisti in genere “Fin de siècle”, da contestualizzare necessariamente guardandoli quali uomini che sentirono fino in fondo la crisi esistenziale di un sistema di valori, quello ottocentesco positivista, e che dal crollo di quella struttura vennero a trovarsi improvvisamente catapultati nello scenario apocalittico del Primo Conflitto Mondiale (ed è questo un raffronto che deve far riflettere noi uomini del ventunesimo secolo…).
Il celebre scrittore di Praga, autore di un numero elevato di testi divenuti celebri (poetici, critici, narrativi), forse non avrebbe sospettato che quelle dieci lettere, scritte in risposta al giovane Franz Xaver Kappus, allievo dell’accademia militare di Wiener Neustadt che anche lui aveva frequentato tempo addietro, sarebbero state, un giorno o l’altro, raccolte e pubblicate (postume). L’essenza di questa silloge tuttavia è tale da superare la soggettività e la relatività del dato contingente: nel dare al neofita consigli letterari e stilistici il grande Rainer, non possiamo dire se consapevolmente o meno, allega una serie di suggerimenti spirituali che costiuiscono quasi un breviario a sé stante, una “carta dell’anima” nella quale l’autore stesso proietta la sua persona, quasi si guardasse allo specchio.
Non abbiamo forse il diritto e il tempo di esprimerci in modo completo sugli aspetti strutturali dell’opera, da correlare magari alle liriche dell’autore con il debito apparato critico; forse, è bene notarlo, neppure ne abbiamo le competenze, dal momento che ogni goccia della fonte luminosa che scaturisce dall’autore delle Elegie di Duino rappresenta un universo concentrato di contenuti fondativi e strumenti retorico stilistici impiegati con abilità magistrale… Ci resta però una dote: quella che accomuna tutte le donne e gli uomini dal cuore semplice, che non hanno appunto smarrito il senso della vita e la passione per la stessa: la spontaneità. Non una spontaneità “banale” osiamo dire (quella fatta di passività e rassegnazione propria dell’uomo contemporaneo), ma una concentrata abilità di recepire, propria della lettura del testo poetico come del testo biblico.
In questa misura, avere un contatto stretto con il nostro autore, con aderenza alle sue scelte lessicali, sintattiche e contenutistiche, leggerlo comunitariamente, soffermandosi sulle parole, ci darà la possibilità di carpirne tutta la carica comunicativa, esplorandone, attraverso le dieci lettere, il senso del messaggio che come abbiamo detto va ben oltre la semplice ispirazione poetica.
È però la poesia, come va specificato in ultima battuta in questo numero preludendo alla futura trattazione, il nucleo della semplicità e complessità al contempo di quest’opera che fanno di Rilke, per lo scrivente come per numerosissime persone che ogni giorno si relazionano, quali scrittori o lettori, con testi dal carattere artistico, un vero e proprio mentore, guida sul cammino della produzione letteraria. Con questo spirito Kappus, come si legge nella prefazione all’edizione tedesca, iniziò a chiedere aiuto al “maestro” nell’autunno del 1902, aspettando con quell’ansia irrequieta, tipica dei ventenni, i responsi dell’autore praghese.
Con questo spirito anche noi, ottant’anni dopo la pubblicazione della raccolta (1929) ci accingiamo a setacciare questo itinerario: itinerario dentro noi stessi, alla scoperta della nostra vocazione.

Mario De Rosa

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