Mese: novembre
Anno: 2010
Articolo: 7
Lettere a un giovane poeta
Quarta Epistola – 2° parte
Il pensiero di essere creatori
“La voluttà del corpo è un’esperienza dei sensi, non diversamente dal puro sguardo e dalla pura sensazione cui un bel frutto colma la lingua; è un’esperienza grande e senza fine che ci è data, una conoscenza del mondo, la pienezza e lo splendore di ogni conoscenza. E non l’accoglierla è male; male è che quasi tutti di questa esperienza fanno cattivo uso, e la sprecano e la impiegano come stimolo nei punti stanchi della loro vita e come distrazione, e non come raccoglimento per attingere apogei.”
Catapultati in medias res, questa volta, ci ritroviamo ancora a commentare questa vibrante epistola di Rainer Maria Rilke. Il grande maestro ha da dire la sua sul tema della passione fisica, dell’amore, del sesso. Ma lo fa con grazia, con la consapevolezza di quanto grande sia l’esperienza dell’incontro con l’altro/altra, l’avvicendarsi, il cercarsi: apogeo e fonte di conoscenza allo stesso tempo. Il poeta praghese ci aveva parlato, nel primo scorcio della lettera, dell’importanza delle domande. Curioso che proprio il tema del sapere sembra illuminare tutta la restante parte del suo scritto, in modo intenso, ma anche essenziale.
“Gli uomini d’altronde hanno mutato anche la natura del mangiare: l’indigenza da un lato e l’abbondanza dall’altro hanno turbato la chiarezza di questo bisogno, e torbidi si sono anche fatti tutti i bisogni profondi, semplici, in cui la vita si rinnova. Ma il singolo può chiarirli per sé e vivere in chiarezza (e se non il singolo, che è troppo dipendente, certo il solitario). Egli può ricordare che ogni bellezza negli animali e nelle piante è una sommessa e duratura forma di amore e desiderio, e può vedere l’animale, come vede la pianta, accoppiarsi docile e paziente e moltiplicarsi e crescere non per piacere fisico, non per dolore fisico, inchinandosi a necessità più grandi di piacere e dolore e più potenti di volontà e rivolta.”
È un Rilke filosofo quello che scrive questi paragrafi. Un poeta, ma forse anche un etologo e un antropologo, osservatore disilluso del reale, consapevole di deformazioni pericolose ante litteram (che se allora furono numerose, oggi sono la norma e l’abitudine), oltre che estasiato profeta della natura, come più volte ci è capitato di poter vedere. Un Rilke spaventosamente vicino al celeberrimo filosofo stoico latino Seneca, che nelle Epistole a Lucilio guarda agli uomini – sovente suoi contemporanei – con un occhio non troppo diverso né tantomeno ingenuo.
“Oh, se l’uomo accogliesse più umilmente questo mistero, di cui la terra è colma fin nelle sue minime cose, e più seriamente lo portasse e lo sopportasse, e ne sentisse la tremenda gravità, che invece prende alla leggera. Se portasse riverenza per la sua fecondità, che essa appaia spirituale o fisica; poiché anche la creazione spirituale trae origine da quella fisica, è della stessa sua natura, e solo una più sommessa, estatica ed eterna replica della voluttà del corpo.”
Queste parole suggellano una teoria interessante, monistica e solo apparentemente materialista. Rilke, che si alza così in alto quando prende la penna in mano, è tuttavia un uomo concreto, uomo innanzitutto, con le pulsioni, le emozioni, le follie di ogni essere umano del suo e del nostro tempo. Ripudiando inutili e pericolosi ascetismi, guarda al materiale, alla ricerca di un’estasi creativa che maggiormente gli è consono in quanto sinceramente spontanea. Tutto ha origine col desiderio e nel desiderio.
“Il pensiero di essere creatore, di generare di plasmare non è nulla senza la sua costante, grande conferma nella realizzazione nel mondo, nulla senza i mille consensi di cose e animali; e il suo godimento è così indescrivibilmente bello e ricco, solo perché è pieno di ricordi ereditati dal generare e partorire di milioni. In un pensiero di creatore rivivono mille dimenticate notti d’amore, e lo colmano di maestà e grandezza. E coloro che nelle notti si incontrano, intrecciati in una cullante voluttà, compiono un serio lavoro e radunano dolcezze, profondità e forza per il canto di qualche poeta venturo, che si leverà per dire indicibili delizie.”
È un’immagine meravigliosa, un modo inedito di parlare della passione erotica, in funzione, curiosamente, della produzione artistica, intesa non nel banale senso che il commercio gli ha affiliato nel nostro secolo, bensì in quello più vivo, primigenio, di creazione quasi mitica, quasi “ex nihilo” nella misura in cui essa è frutto dell’originalità, dello studio, della perizia e del desiderio di una persona.
È soltanto una similitudine, delicata quasi come se fosse poesia: un modo semplice, aperto e continuativo, di nobilitare l’arte parlando dalla vita dei corpi, dalla passione, dall’eros,… di tutto ciò che profondamente continua a restare arte e meraviglia del creato.
Mario De Rosa